Nostro Signore Gesù Cristo Re
dell'universo
Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Domenica 25
novembre 2012 - Solennità
Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Giovanni
18,33-37
Pilato allora rientrò
nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Tu sei il re dei Giudei?».
Gesù rispose: «Dici questo da te oppure altri te l'hanno detto sul mio
conto?». Pilato rispose: «Sono io forse Giudeo? La tua
gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai
fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo;
se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero
combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non
è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose
Gesù: «Tu lo dici; io sono re. Per
questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere
testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta
la mia voce».
Corrispondenza nell’"Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria
Valtorta
Volume 10 Capitolo 604
pagina 40
Gesù
entra nel
Pretorio in mezzo ai dieci soldati, che fanno un quadrato di alabarde
intorno alla sua persona. I due centurioni vanno avanti. Mentre Gesù
sosta in un largo atrio, oltre il quale è un cortile che si intravede
dietro una tenda che il vento sommuove, essi scompaiono dietro una
porta.
Rientrano col Governatore, vestito di una toga bianchissima sulla quale
però è un manto scarlatto. Forse così erano quando
rappresentavano ufficialmente Roma. Entra indolentemente, con un
sorrisetto scettico sul volto sbarbato, stropiccia fra le mani delle
fronde di erba
cedrina e le fiuta con voluttà. Va ad una meridiana, si rivolge dopo
averla guardata. Getta dei grani d’incenso nel braciere posto ai
piedi di un nume. Si fa portare acqua cedrata e si gargarizza la gola.
Si rimira la pettinatura tutta a onde in uno specchio di metallo
tersissimo.
Pare che abbia dimenticato il Condannato che aspetta la sua approvazione
per essere ucciso. Farebbe venire l’ira anche alle
pietre.
Gli
ebrei, posto che
l’atrio è tutto aperto sul davanti e sopraelevato di tre alti scalini
anche sul vestibolo, che si apre sulla via già sopraelevato
di altri tre sulla via stessa, vedono tutto benissimo e fremono. Ma non
osano ribellarsi per paura delle aste e dei giavellotti.
Finalmente, dopo avere girato e rigirato per l’ampio luogo, Pilato va
diritto incontro a Gesù, lo guarda a chiede ai due centurioni:
«Questo?».
«Questo».
«Vengano i suoi
accusatori», a va a sedersi sulla sedia posta sulla predella.
Sul suo capo le insegne di
Roma si incrociano con le loro aquile dorate e la loro sigla potente.
«Non possono venire. Si
contaminano».
«Euè!!!
Meglio.
Eviteremo fiumi d’essenze per levare il caprino al luogo. Fateli
avvicinare, almeno. Qui sotto. E badate non entrino, posto che non
vogliono
farlo. Può essere un pretesto, quest’uomo, per una sedizione».
Un soldato parte per portare
l’ordine del Procuratore romano. Gli altri si schierano sul davanti dell’atrio a distanze regolari, belli come nove statue di
eroi.
Vengono
avanti i capi dei
sacerdoti, scribi e anziani, e salutano con servili inchini e si fermano
sulla piazzetta che è al davanti del Pretorio, oltre i tre gradini del
vestibolo.
«Parlate e siate brevi.
Già in colpa siete per avere turbato la notte e ottenuto l’apertura delle porte con violenza. Ma verificherò. E mandanti e
mandatari risponderanno della disubbidienza al decreto».
Pilato è andato verso
di loro, rimanendo nel vestibolo.
«Noi veniamo a
sottoporre a Roma, di cui tu rappresenti il divino Imperatore, il nostro giudizio su Costui».
«Quale accusa portate
contro di Lui? Mi sembra un innocuo...».
«Se non fosse
malfattore non te Lo avremmo portato». E nella smania di accusare si fanno avanti.
«Respingete questa
plebe! Sei passi oltre i tre scalini della piazza. Le due centurie all’armi!».
I
soldati ubbidiscono veloci,
allineandosi cento sul gradino esterno più alto, con le spalle volte al
vestibolo, e cento sulla piazzetta su cui si apre il portone
d’ingresso alla dimora di Pilato. Ho detto portone: dovrei dire androne o
arco trionfale, perché è una vastissima apertura
limitata da un cancello, ora spalancato, che immette nell’atrio per il
lungo corridoio del vestibolo largo almeno sei metri, di modo che ben si
vede ciò che avviene nell’atrio sopraelevato. Oltre l’ampio vestibolo si
vedono le facce bestiali dei giudei guardare minacciose e
sataniche verso l’interno, guardare dall’al di là della barriera armata
che, gomito a gomito, come per una parata, presenta
duecento punte ai conigli assassini.
«Quale accusa portate
verso Costui, ripeto».
«Ha commesso delitto
contro la Legge dei padri».
«E venite a seccare me
per questo? Pigliatelo voi e giudicatelo secondo le vostre leggi».
«Noi
non possiamo dar
morte ad alcuno. Dotti non siamo. Il Diritto ebraico è un pargolo
deficiente rispetto al perfetto Diritto di Roma. Come ignoranti e come
soggetti di Roma, maestra, abbiamo bisogno...».
«Da quando siete miele
e burro?... Ma avete detto una verità, o maestri del mendacio! Di Roma avete bisogno! Sì. Per sbarazzarvi di Costui che vi dà
noia. Ho compreso».
E Pilato ride, guardando il
cielo sereno che si inquadra come una rettangolare lastra di cupa turchese fra le marmoree e candide pareti dell’atrio.
«Dite: in che ha
commesso delitto contro le vostre leggi?».
«Noi abbiamo trovato
che Costui metteva il disordine nella nostra nazione e che impediva di pagare il tributo a Cesare, dicendosi il Cristo, re dei
giudei».
Pilato ritorna presso
Gesù, che è al centro dell’atrio, lasciato là dai soldati, legato ma senza scorta tanto appare netta la sua mansuetudine. E
gli chiede:
«Sei Tu il re dei
giudei?».
«Per te lo chiedi o per
insinuazione d’altri?».
«E
che vuoi che me ne
importi del tuo regno? Son forse io giudeo? La tua nazione e i capi di
essa mi Ti hanno consegnato perché io giudichi. Che hai fatto? Ti so
leale. Parla. È vero che aspiri al regno?».
«Il
mio Regno non viene
da questo mondo. Se fosse un regno del mondo, i miei ministri e i miei
soldati avrebbero combattuto perché i giudei non mi pigliassero. Ma il
mio Regno non è della terra. E tu lo sai che al potere Io non tendo».
«Ciò è
vero. Lo so. Mi fu detto. Ma però Tu non neghi d’essere re?».
«Tu lo dici. Io sono
Re. Per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla Verità. Chi è amico della Verità ascolta la mia
voce».
«E che cosa è
la Verità? Sei filosofo? Non serve di fronte alla morte. Socrate
morì lo stesso».
«Ma gli servì di
fronte alla vita, a ben vivere. E anche a ben morire. E ad andare nella vita seconda senza nome di traditore delle civiche
virtù».
«Per Giove!».
Pilato lo guarda ammirato
qualche momento. Poi lo riprende il sarcasmo scettico. Fa un atto di noia, gli volge le spalle, torna verso i giudei.
«Io non trovo in Lui
alcuna colpa».
La folla tumultua, presa dal
panico di perdere la preda e lo spettacolo del supplizio. E urla:
È un ribelle!»,
«Un bestemmiatore», «Incoraggia il libertinaggio», «Eccita alla ribellione», «Nega rispetto a Cesare»,
«Si finge profeta senza esserlo», «Compie magie», «È un satana», «Solleva il popolo con le sue
dottrine insegnando in tutta la Giudea, alla quale è venuto dalla Galilea
insegnando», «A morte!», «A morte!». «Galileo è? Galileo sei?».
Pilato torna da Gesù:
«Lo senti come ti accusano? Discolpati».
Ma Gesù
tace.
Pilato pensa... E decide.
«Una
centuria, e da
Erode Costui. Lo giudichi. È suo suddito. Riconosco il diritto del
Tetrarca e al suo verdetto sottoscrivo in anticipo. Gli sia detto.
Andate».
E
Gesù, inquadrato
come un manigoldo da cento soldati, riattraversa la città e torna ad
incontrare Giuda Iscariota, che già aveva incontrato una volta
presso un mercato. Prima mi ero dimenticata di dirlo, presa dal disgusto
della zuffa popolana. Lo stesso sguardo di pietà sul
traditore...
Ora
è più
difficile colpirlo con calci e bastoni, ma le pietre e le immondezze non
mancano e, se i sassi cadono sonando senza ferire sugli elmi e le
corazze
romane, ben lasciano un segno colpendo Gesù, che procede col solo
vestito, avendo lasciato il mantello nel Getsemani. Nell’entrare nel
fastoso palazzo di Erode, Egli vede Cusa... che non sa guardarlo e che
fugge per non vederlo in quello stato, coprendosi il capo col
mantello.
Eccolo
nella sala, davanti a
Erode. E, dietro Lui, ecco gli scribi e i farisei, che qui si sentono a
loro agio, entrare da accusatori mendaci. Solo il centurione con quattro
militi lo scortano davanti al Tetrarca. Questo scende dal suo seggio e
gira intorno a Gesù, mentre ascolta le accuse dei nemici suoi. E sorride
e beffeggia. Poi finge una pietà e un rispetto che non turbano il
Martire come non Lo hanno turbato i motteggi.
«Sei
grande. Lo so. Ti
ho seguito e ho avuto giubilo che Cusa ti fosse amico e Manaem
discepolo. Io... le cure di Stato... Ma che desiderio di dirti:
grande... di chiederti
perdono... L’occhio di Giovanni... la sua voce mi accusano e sempre
davanti a me sono. Tu sei il Santo che annulla i peccati del mondo.
Assolvimi, o Cristo».
Gesù
tace.
«Ho sentito che Ti
accusano di esserti drizzato contro Roma. Ma non sei Tu la verga promessa per percuotere Assur?».
Gesù
tace.
«Mi hanno detto che Tu
profetizzi la fine del Tempio e di Gerusalemme. Ma non è eterno il Tempio come spirito, essendo voluto da Chi eterno
è?».
Gesù
tace.
«Sei folle? Hai perduto
il potere? Satana ti inceppa la parola? Ti ha abbandonato?». Erode ride, ora.
Ma
poi dà un ordine. E
dei servi accorrono portando un levriero dalla gamba spezzata, che
guaisce lamentosamente, e uno stalliere ebete dalla testa acquosa,
sbavante, un
aborto d’uomo, trastullo dei servi. Gli scribi e i sacerdoti fuggono
urlando al sacrilegio, quando vedono la barella del cane. Erode, falso e
beffardo, spiega:
«È il preferito
di Erodiade. Dono di Roma. Si è spezzato ieri una zampa ed ella piange. Comanda che guarisca. Fa un miracolo».
Gesù lo guarda severo.
E tace.
«Ti ho offeso? Allora
questo. È un uomo, benché di poco sia più che una belva. Dagli l’intelligenza, Tu, Intelligenza del Padre... Non dici
così?».
E ride, offensivo. Altro
più severo sguardo di Gesù e silenzio.
«Quest’Uomo
è troppo astinente e ora è intontito dagli spregi. Vino e donne, qui. E sia slegato».
Lo
slegano. E mentre servi,
in gran numero, portano anfore e coppe, entrano danzatrici... coperte di
niente: una frangia multicolore di lino cinge per unica veste la loro
sottile
persona, dalla cintura alle anche. Null’altro. Bronzee perché africane,
snelle come gazzelle giovinette, iniziano una danza silenziosa e
lasciva.
Gesù respinge le coppe
e chiude gli occhi senza parlare. La corte di Erode ride davanti al suo sdegno.
«Prendi quella che
vuoi. Vivi! Impara a vivere!...», insinua Erode.
Gesù pare una statua.
A braccia conserte, occhi serrati, non si scuote neppure quando le impudiche danzatrici Lo sfiorano coi loro corpi nudi.
«Basta.
Ti ho trattato
da Dio e non hai agito da Dio. Ti ho trattato da uomo e non hai agito da
uomo. Sei folle. Una veste bianca. Rivestitelo di essa perché Ponzio
Pilato sappia che il Tetrarca ha giudicato folle il suo suddito.
Centurione, dirai al Proconsole che Erode gli umilia il suo rispetto e
venera Roma.
Andate».
E Gesù, legato di
nuovo, esce, con una tunica di lino, che gli giunge al ginocchio, sopra la rossa veste di lana. E tornano da Pilato.
Ora,
quando la centuria fende
a fatica la folla, che non si è stancata di attendere davanti al palazzo
proconsolare ‑ed è strano vedere tanta folla in quel
luogo e nelle vicinanze, mentre il resto della città appare vuoto di
popolo‑ Gesù vede in gruppo i pastori, e sono al completo,
ossia Isacco, Gionata, Levi, Giuseppe, Elia, Mattia, Giovanni, Simeone,
Beniamino e Daniele, insieme ad un gruppetto di galilei di cui riconosco
Alfeo
e Giuseppe di Alfeo, insieme a due altri che non conosco ma che direi
giudei dalla acconciatura. E più oltre, scivolato fin dentro al
vestibolo, seminascosto dietro una colonna, insieme ad un romano che
direi un servo, vede Giovanni. Sorride a questo e a quelli... I suoi
amici... Ma
che sono questi pochi, a Giovanna e Manaem e Cusa, in mezzo ad un oceano
di odio che bolle?...
Il centurione saluta Ponzio
Pilato e riferisce.
«Qui ancora?! Auf!
Maledetta questa razza! Fate avanzare la plebaglia e portate qui l’Accusato. Euè! che noia!».
Va verso la folla, sempre
fermandosi a metà vestibolo.
«Ebrei,
udite. Mi avete
condotto quest’Uomo come sobillatore del popolo. Davanti a voi L’ho
esaminato e non ho trovato in Lui nessuno dei delitti di cui Lo
accusate. Erode non più di me ha trovato. E a noi Lo ha rimandato. Non
merita la morte. Roma ha parlato. Però, per non dispiacervi
levandovi il sollazzo, vi darò in cambio Barabba. E Lui lo farò colpire
con quaranta colpi di fustigazione. Basta
così».
«No, no! Non Barabba!
Non Barabba! A Gesù la morte! E morte orrenda! Libera Barabba e condanna il Nazzareno».
«Ma udite! Ho detto
fustigazione. Non basta? Lo farò flagellare, allora! È atroce, sapete? Può morire per essa. Che ha fatto di male? Io non trovo
nessuna colpa in Lui. E lo libererò».
«Crocifiggi!
Crocifiggi! A morte! Protettore dei delinquenti sei! Pagano! Satana tu pure!».
La
folla si fa sotto e la
prima schiera di soldati ondeggia nell’urto, non potendo usare le aste.
Ma la seconda fila, scendendo d’un gradino, rotea le aste e libera
i compagni.
«Sia flagellato»,
ordina Pilato a un centurione.
«Quanto?».
«Quanto ti pare...
Tanto è affare finito. E io sono annoiato. Va’».
Gesù
viene tradotto da
quattro soldati nel cortile oltre l’atrio. In esso, tutto selciato di
marmi colorati, è al centro un’alta colonna simile a quella
del porticato. A un tre metri dal suolo essa ha un braccio di ferro
sporgente per almeno un metro e terminante in anello. A questa viene
legato
Gesù con le mani congiunte sull’alto del capo, dopo che fu fatto
spogliare. Egli resta unicamente con delle piccole brache di lino e i
sandali. Le mani legate ai polsi vengono alzate sino all’anello, di modo
che Egli, per quanto sia alto, non poggia al suolo che la punta dei
piedi... E deve essere tortura anche questa posizione. Ho letto non so
dove che la colonna era bassa e Gesù stava curvo. Sarà. Io vedo
così e così dico.
Dietro
a Lui si colloca uno
dalla faccia di boia, dal netto profilo ebraico; davanti a Lui, un altro
dalla faccia uguale. Sono armati del flagello, fatto di sette strisce
di
cuoio legate ad un manico a terminanti in un martelletto di piombo.
Ritmicamente, come per un esercizio, si danno a colpire. Uno davanti,
l’altro di dietro, di modo che il tronco di Gesù è in una ruota di
sferze e di flagelli.
I
quattro soldati a cui
è consegnato, indifferenti, si sono messi a giocare a dadi con altri tre
soldati sopraggiunti. E le voci dei giocatori si cadenzano sul suono
dei flagelli, che fischiano come serpi e poi suonano come sassi gettati
sulla pelle tesa di un tamburo, percuotendo il povero corpo così snello
e di un bianco d’avorio vecchio, e che diviene prima zebrato di un rosa
sempre più vivo, poi viola, poi si orna di rilievi d’indaco
gonfi di sangue, e poi si crepa e rompe lasciando colare sangue da ogni
parte. E infieriscono specie sul torace e l’addome, ma non mancano i
colpi dati alle gambe e alle braccia e fin sul capo, perché non vi fosse
brano di pelle senza dolore.
E
non un lamento... Se non
fosse sostenuto dalla fune, cadrebbe. Ma non cade e non geme. Solo la
testa gli pende, dopo colpi e colpi ricevuti, sul petto, come per
svenimento.
«Ohé! Fermati!
Deve essere ucciso da vivo», urla e motteggia un soldato.
I due boia si fermano e si
asciugano il sudore.
«Siamo sfiniti»,
dicono. «Dateci la paga, che si possa bere per ristorarsi...».
«La forca vi darei! Ma
prendete...», e un decurione getta una larga moneta ad ognuno dei due boia.
«Avete
lavorato a
dovere. Pare un mosaico. Tito, dici che era proprio questo l’amore di
Alessandro? Allora gliene daremo notizia perché faccia il lutto.
Sleghiamolo un poco».
Lo slegano e Gesù si
accascia al suolo come morto. Lo lasciano là, urtandolo ogni tanto col piede calzato dalle calighe per vedere se geme. Ma Egli
tace.
«Che sia morto?
Possibile? È giovane e artiere, mi hanno detto... e pare una dama delicata».
«Ora
ci penso
io», dice un soldato. E Lo mette seduto con la schiena alla colonna.
Dove Egli era, sono grumi di sangue... Poi va ad una fontanella che
chioccola sotto al portico, empie un mastello d’acqua e la rovescia sul
capo e sul corpo di Gesù.
«Così! Ai fiori
fa bene l’acqua».
Gesù sospira
profondamente e fa per alzarsi, ma ancora sta ad occhi chiusi.
«Oh! bene. Su, bellino!
Che ti aspetta la dama!...».
Ma Gesù inutilmente
punta al suolo i pugni nel tentativo di drizzarsi.
«Su!
Svelto! Sei
debole? Ecco il ristoro», ghigna un altro soldato. E con l’asta della
sua alabarda mena una bastonata al viso e coglie Gesù fra lo
zigomo destro e il naso, che si mette a sanguinare.
Gesù
apre gli occhi,
li gira. Uno sguardo velato... Fissa il soldato percuotitore, si asciuga
il sangue con la mano, e poi, con molto sforzo, si pone in
piedi.
«Vestiti. Non è
decenza stare così. Impudico!».
Ridono
tutti in cerchio
intorno a Lui. Egli ubbidisce senza parlare. Ma mentre si china ‑e solo
Lui sa quello che soffre nel piegarsi al suolo, così contuso come
è, e con le piaghe che nel tendersi della pelle si aprono più ancora, e
altre che se ne formano per vesciche che si rompono- un soldato
dà un calcio alle vesti e le sparpaglia e, ogni volta che Gesù le
raggiunge andando barcollante dove esse cadono, un soldato le spinge o
le getta in altra direzione. E Gesù, soffrendo acutamente, le insegue
senza una parola, mentre i soldati Lo deridono
oscenamente.
Può
finalmente
rivestirsi. E rimette anche la veste bianca, rimasta pulita in un
angolo. Pare voglia nascondere la sua povera veste rossa, solo ieri
tanto bella ed
ora lurida di immondizie e macchiata del sangue sudato nel Getsemani.
Anzi, prima di mettersi la tunichella corta sulla pelle, con essa si
asciuga il
volto bagnato e lo deterge così da polvere e sputi. Ed esso, il povero,
santo volto, appare pulito, solo segnato da lividi e piccole ferite. E
si ravvia i capelli caduti scomposti e la barba per un innato bisogno di
essere ordinato nella persona.
E poi si accoccola al sole. Perché trema, il mio Gesù... La febbre comincia a serpeggiare in Lui con i suoi brividi. E anche la
debolezza del sangue perduto, del digiuno, del molto cammino, si fa sentire.
Gli legano di nuovo le mani.
E la corda torna a segare là dove è già un rosso braccialetto di pelle scorticata.
«E ora? Che ne
facciamo? Io mi annoio!».
«Aspetta. I giudei
vogliono un re. Ora glielo diamo. Quello lì...», dice un soldato.
E
corre fuori, in un
retrostante cortile certo, dal quale torna con un fascio di rami di
biancospino selvatico, ancora flessibili perché la primavera tiene
relativamente morbidi i rami, ma ben duri nelle spine lunghe e
acuminate. Con la daga levano foglie e fioretti, piegano a cerchio i
rami e li calcano
sul povero capo. Ma la barbara corona ricade sul collo.
«Non ci sta. Più
stretta. Levala».
La
levano e sgraffiano le
guance, risicando di accecarlo, e strappano i capelli nel farlo. La
stringono. Ora è troppo stretta e, per quanto la pigino conficcando gli
aculei nel capo, essa minaccia di cadere. Via di nuovo strappando altri
capelli. La modificano di nuovo. Ora va bene. Davanti è un triplice
cordone spinoso. Dietro, dove gli estremi dei tre rami si incrociano, è
un vero nodo di spini che entrano nella nuca.
«Vedi come stai bene?
Bronzo naturale a rubini schietti. Specchiati, o re, nella mia corazza», motteggia l’ideatore del supplizio.
«Non basta la corona a
fare un re. Ci vuole porpora e scettro. Nella stalla è una canna e nella cloaca è una clamide rossa. Prendile,
Cornelio».
E,
avutele, mettono il
sudicio straccio rosso sulle spalle di Gesù e, prima di mettergli fra le
mani la canna, gliela danno sul capo inchinandosi e salutando:
«Ave, re dei
Giudei», e si sbellicano dalle risa.
Gesù li lascia fare. Si lascia mettere seduto sul
«trono» -un mastello capovolto, certo usato per abbeverare
i cavalli- si lascia colpire, schernire, senza mai parlare. Li guarda
solo... ed è uno sguardo di una dolcezza e di un dolore così
atroce che non lo posso sostenere senza sentirne ferita al cuore.
I
soldati smettono lo scherno
solo alla voce aspra di un superiore che ordina la traduzione davanti a
Pilato del reo. Reo! Di che? Gesù è riportato nell’atrio,
ora coperto da un prezioso velario per il sole. Ha ancora la corona, la
clamide e la canna.
«Vieni avanti. Che io
ti mostri al popolo».
Gesù, già
franto, si raddrizza dignitoso. Oh! che è veramente re!
«Udite, ebrei. Qui
è l’Uomo. Io L’ho punito. Ma ora lasciatelo andare».
«No, no! Vogliamo
vederlo! Fuori! Che si veda il bestemmiatore!».
«Conducetelo fuori. E
guardate non sia preso».
E mentre Gesù esce nel
vestibolo e si mostra nel quadrato dei soldati, Ponzio Pilato Lo accenna colla mano dicendo:
«Ecco l’Uomo. Il
vostro Re. Non basta ancora?».
Il sole di una giornata
afosa, che ormai scende quasi diritto perché si è a metà tra terza e sesta, accende e dà risalto agli sguardi e ai volti:
sono uomini quelli? No: iene idrofobe. Urlano, mostrano i pugni, chiedono morte...
Gesù sta eretto. Mai
ebbe la nobiltà di ora. Neppure quando faceva i più potenti miracoli. Nobiltà di dolore. Ma talmente divino che basterebbe a
segnarlo del nome di Dio. Ma per dire quel Nome bisogna essere almeno uomini. E
Gerusalemme non ha uomini, oggi. Ma solo demoni.
Gesù
gira lo sguardo
sulla folla, cerca, trova, nel mare dei visi astiosi, i volti amici.
Quanti? Meno di venti amici in migliaia di nemici... E curva il capo
colpito da
questo abbandono. Una lacrima cade... un’altra... un’altra... La vista
del suo pianto non genera pietà, ma ancor più fiero
odio.
Viene riportato
nell’atrio.
«Dunque? Lasciatelo
andare. È giustizia».
«No. A morte.
Crocifiggi».
«Vi do
Barabba».
«No. Il
Cristo!».
«E allora prendetelo
voi. E da voi crocifiggetelo. Perché io non trovo alcuna colpa in Lui per farlo».
«Si è detto
Figlio di Dio. La nostra legge commina la morte al reo di tale bestemmia».
Pilato si fa pensoso.
Rientra. Si siede sul suo tronetto. Pone una mano alla fronte e il gomito sul ginocchio e scruta Gesù.
«Avvicinati»,
dice.
Gesù va ai piedi della
predella.
«È vero?
Rispondi».
Gesù
tace.
«Da dove vieni? Chi
è Dio?».
«È il Tutto».
«E poi? Che vuol dire
il Tutto? Che è il Tutto per chi muore? Sei folle... Dio non è. Io sono».
Gesù tace. Ha lasciato
cadere la grande parola e poi torna a fasciarsi di silenzio.
«Ponzio, la liberta di
Claudia Procula chiede di entrare. Ha uno scritto per te».
«Domine! Anche le donne
ora! Venga».
Entra
una romana e si
inginocchia porgendo una tavoletta cerata. Deve essere quella su cui
Procula prega il marito di non condannare Gesù. La donna si ritira a
ritroso mentre Pilato legge.
«Mi si consiglia evitare il tuo omicidio. È vero che sei più di un aruspice? Mi fai paura».
Gesù
tace.
«Ma non sai che ho
potere di liberarti o di crocifiggerti?».
«Nessun potere avresti, se non ti fosse dato dall’alto. Perciò, chi mi ha dato nelle tue mani è
più colpevole di te».
«Chi è? Il tuo
Dio? Ho paura...».
Gesù
tace.
Pilato
è sulle spine.
Vorrebbe e non vorrebbe. Teme il castigo di Dio, teme quello di Roma,
teme le vendette giudee. Vince un momento la paura di Dio. Va sul
davanti
dell’atrio e tuona:
Non è
colpevole».
«Se lo dici, sei nemico
di Cesare. Chi si fa re è suo nemico. Tu vuoi liberare il Nazzareno. Faremo sapere a Cesare questo».
Pilato viene preso dalla
paura dell’Uomo.
«Lo
volete morto,
insomma? E sia. Ma il sangue di questo giusto non sia sulle mie mani», e
fattosi portare un catino si lava le mani alla presenza del popolo, che
pare preso da frenesia mentre urla:
«Su noi, su noi il suo
sangue. Su noi ricada e sui nostri figli. Non lo temiamo. Alla croce! Alla croce!».
Ponzio
Pilato torna sul
tronetto, chiama il centurione Longino e uno schiavo. Dallo schiavo si
fa portare una tavola su cui appoggia un cartello e vi fa scrivere:
«Gesù Nazareno, Re dei Giudei». E lo mostra al
popolo.
«No. Non così.
Non re dei Giudei. Ma che ha detto che sarebbe re dei Giudei», così urlano in molti.
«Ciò che ho
scritto, ho scritto», dice duro Pilato e, dritto in piedi, stende la mano a palma in avanti e volta in basso e ordina:
«Vada alla croce.
Soldato, va. Prepara la croce».
E scende senza neppure
più voltarsi verso la folla in tumulto, né verso il pallido Condannato. Esce dall’atrio... Gesù resta al centro di esso,
sotto la guardia dei soldati, in attesa della croce.
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta